Steampunk:
Flashback:
Adele prese una boccetta dal tavolo della specchiera e, dopo averla agitata, si versò due gocce negli occhi opali.
L’ingranaggio scattò e un rimestare sommesso si propagò dal cervello della donna, costringendola a chiudere le palpebre un paio di volte e a riaprirle. Un tintinnare di monete le risuonò nell’orecchio e Adele attese l’accensione finale del dispositivo. La visuale si schiarì e lei vide il livellarsi dei colori dell’atmosfera diventare omogenei e fluidi, come piaceva a lei.
Il braccio le doleva e faceva fatica a muovere l’articolazione. Zoppicò fino alla cucina e schioccò le dita per far accende le luci; un sibilo d’approvazione risuonò in tutta la casa e Adele si mise a canticchiare allegra, aspettando i clienti di quel pomeriggio.
S’affacciò alla finestra e scorse il cartellone che capeggiava sopra il suo portone. “Adele Brightman, chiaroveggente.”
Si sedette sul divano e attese, muovendo con delicate mosse sbuffi di vapore che provenivano dalla grande caldaia posta nel salotto; l’ambiente era saturo di umidità, eppure Adele c’era cresciuta così bene, sostenendo che fosse proprio quello a darle quei poteri mistici.
Era scivolata dentro quella casa a diciott’anni ed era riuscita ad adattarsi ai suoi ritmi e ai suoi rintocchi, dati dagli ingranaggi che percorrevano per intero la falsa palazzina. Adele era ferita e per poco non svenne sull’uscio, aggrappandosi al braccio rotto in più punti. L’incidente in fabbrica non aveva mosso a pietà nessuno e lei era stata cacciata via senza tanti complimenti.
«Signorina, se vuole posso aiutarla.»
Aveva alzato gli occhi, così diversi da quelli che aveva oggi e aveva scorto un giovanotto ben vestito e dalla voce affabile. Lui le passò un braccio e lei si tirò su, cercando di non far vedere quanto soffriva.
Quando le aveva detto che dovevano tagliarlo via, Adele aveva stretto i denti e una sola lacrima era colata giù per una guancia.
«Se vuoi però, ho qualcosa per sostituirlo.»
Una mano metallica apparve da sopra la spalla di lui.
La campanella sopra la porta trillò e Adele, sfregandosi bene gli occhi, contribuì al rossore causato dalla Belladonna versata poco prima.
«Avanti.»
La ragazzina era una di quelle che potevano volare via con un soffio di vento, l’ennesima moda di quel 1867 che Adele non mandava giù: sostenere di essere in grado di saper vivere senza cibo non era cosa nuova e Adele sfruttava la cosa a suo vantaggio.
«Si segga sul divano e mi metta al corrente, anzi, non lo faccia!»
Adele s’era calata nella parte e, sfoderato l’arto sinistro meccanico, afferrò con forza mascolina la mano della fanciulla e la rovesciò sul tavolo. Lo scialle di Adele si muoveva e gli sbuffi d’aria provenienti dalla clavicola rendevano tutto ipnotico.
«Vedo che sei vittima di un raggiro… e anche grave, visto che è stato il tuo ragazzo.»
La ragazza tirò via la mano e si rannicchiò sul divano, spaventata.
«Non temere uccellino, ti aiuterò io. La prossima volta che accadrà qualcosa, tu lo saprai prima.»
Si frugò tra i seni stretti nel corsetto e, tirata fuori una boccetta gliela consegnò, con l’altra che ancora non aveva la forza di replicare.
«Ne bastano due gocce per occhio tutti i giorni e vedrai come tutto ti sarà più chiaro. Quando esci, lasciami cinque ghinee sul mobile.»
La ragazza annuì sconcertata e, fuggendo via dalla casa, dimenticò per terra la mantella.
Adele fece una smorfia e, premuto un pulsante sul muro dietro di lei, fece apparire un attaccapanni a forma di polipo con numerosi ganci che ondeggiavano a seconda dell’altezza. Una tirata di leva ed ecco che uno arrivò dove le serviva, appendendo l’ennesimo oggetto perso.
«Oggi cos’hanno scordato?»
Lauren, suo marito, uscì dalla cantina sporco di grasso e pulendosi le mani in uno strofinaccio, seguito dal loro automa Anton.
Adele gli fece un cenno e Anton la aiutò a togliersi le protesi oculari, mostrando così le orbite vuote.
La guardò e sospirò, pensando a quante cose di lei aveva cambiato negli anni; non solo aveva accettato di portare una protesi così sperimentale, ma aveva anche accettato di dargli i suoi occhi non appena avevano fiutato l’affare delle gocce di belladonna. Metà delle londinesi di White Chapel portavano le loro protesi e, se i suoi calcoli erano esatti, tra una settimana avrebbero dovuto cambiare quartiere per sempre; l’ennesimo controllo di Scotland Yard che sperava di ostacolarli.
«Un manto. Tornerà tanto, tornano tutti dopo che gli do le nostre gocce.»
«Povere piccole stupide. Troppo impegnate con l’idroterapia, il parossismo e la fame che si fidano davvero di chiunque. Erano belli almeno?»
«Normali, con un color castano ambrato. Ne abbiamo avuti di migliori, se devo essere sincera.»
Con quel colore poteva farci davvero poco, se non recuperare l’umor vitreo e impiantarci su le cornee meccaniche e le iridi; chissà perché veniva meglio con gli occhi chiari, s’era sempre chiesto.
Lauren fece un segno ad Anton e l’automa si mosse, attivando la leva principale della casa; una folata di vapore uscì dallo sfiatatoio vicino al camino e Lauren sorrise soddisfatto; odiava cambiare posto ma vedere la sua creatura, la loro casa muoversi era bellissimo.
S’abbracciarono, mentre si dirigevano con buon passo dall’altro lato del quartiere Whitechapel. Sopra l’arcata d’ingresso, un altro cartello: “Smith e moglie, protesi oculari di tutti i colori”.
Chiara Rufino
FAQ sulle storie variabili
Indice delle storie variabili