Emissioni



Narratore onnisciente:

Sensazioni:

Il piccolo aprì gli occhi al centro di un crocicchio di tubi che s’intrecciavano l’un l’altro come un metallico sistema venoso, quasi ogni conduttura era erosa in più punti e, dalle guarnizioni sciolte, uno stillicidio di olio nero e caldo gli colava sulla pelle come una guaina di lattice.
Il liquido fetido rifletteva le flebili luci dei macchinari attorno a lui distorcendole in una fioca iridescenza, la consistenza vischiosa e avvolgente gli era familiare e lo faceva sentire al sicuro mentre scivolava su di lui.
Di tanto in tanto, come a voler riscaldare la piccola creatura, delle valvole di sfogo poste da qualche parte in quella giungla di tubature arrugginite lasciavano andare le loro esalazioni tiepide, aumentando temperatura e umidità della sala.
Intorno al piccolo ogni cosa agiva segretamente per tenerlo in vita, caldaie e termostati si azionavano di continuo, e bocchettoni d’aspirazione mantenevano l’aria respirabile garantendo un costante ricambio d’ossigeno.

Appena presa coscienza dei suoi dintorni, il bambino iniziò a contorcersi in preda ai conati; per istinto afferrò il tubo che gli attraversava l’esofago e cominciò a tirare, sentendo lo stomaco contrarsi per il riflesso faringeo.
Ogni strattone era uno strazio, gli occhi gli rotearono indietro nelle orbite mentre combatteva per non perdere i sensi.
Quando finalmente riuscì a espellerlo sentì il cavo scivolargli tra le mani, grasso e succhi gastrici ne ricoprivano la superficie in grumi fetidi e scivolosi.

Il condotto era abbastanza lungo da arrivargli allo stomaco e dall’estremità usciva in modo lento ma costante una poltiglia macilenta cosparsa di ispide toppe di pelo.
Il liquido nutriente era composto da scarafaggi e topi ridotti in poltiglia, da qualche parte all’interno della struttura intere colonie venivano allevate in completa automazione per garantire una costante scorta di cibo.

Il bambino tossì e si mise a quattro zampe, si rese conto di poter reggere facilmente il suo peso ma il disorientamento non gli permise di alzarsi in piedi; avanzò a carponi, esplorando con le mani l’ambiente che scoprì essere sferico e ricoperto dello stesso liquido fosco e vischioso che gli imbrattava arti e pancia. Diede qualche strattone alle tubature flessibili che pendevano dal soffitto sinché una si staccò, generando un caleidoscopio di scintille e archi elettrici che per un istante rischiararono il groviglio che lo circondava.

La macchina rilevò la presa di coscienza del suo ospite, avviando automaticamente la procedura d’espulsione d’emergenza: i pressostati scattarono in posizione con uno schiocco.
Una luce rossa e intermittente si accese, illuminando i getti di vapore modulati dalle valvole in un fischio assordante e bitonale, un suono apocalittico che spaventò il bambino al punto da farlo unire a quell’assurdo pianto meccanico.
La stanza sferica gli sembrò d’un tratto più piccola, ed ebbe la sensazione che il mondo intero intorno a lui avesse iniziato a sussultare, sentì il cuore picchiargli dentro il petto e gridò finché le vene sul collo non gli fecero male; il liquame fetido raccolto alla base della sfera lo copriva sino alle spalle e ogni respiro portava con sé una zaffata di afrore nauseabondo; d’improvviso ebbe la certezza che sarebbe morto lì, la bolla di metallo sarebbe stata l’unico mondo che avrebbe mai conosciuto.

Ci vollero diversi minuti prima che la camera inferiore si aprisse, lasciando colare verso il basso l’olio rancido e, con esso, il piccolo ormai privato d’ogni punto d’appoggio.
Scivolò di stanza in stanza, attraverso tubi ingrassati e condotti divorati dalla ruggine, tra sbuffi di fumo e stanzoni bui dove occhi predatori sembravano nascondersi in ogni angolo coperto di tenebra, ma alla fine capì quale fosse la sua destinazione finale: la botola, una finestrella da cui scolava l’olio nero e da cui entravano luce bianca e un’aria asciutta, inodore, ben diversa dal vapore acqueo che aveva respirato fino a quel momento.
C’era qualcosa in quello sfiatatoio che lo chiamava, ma allo stesso tempo l’idea che non sarebbe più potuto tornare indietro alla sicurezza e stabilità della sua stanza buia, a crogiolarsi nel caldo fluido nero, lo faceva tentennare.

Prese fiato, chiuse gli occhi e si spinse oltre la piccola apertura che si spalancava sotto di lui, cadde per quella che gli parve un’eternità, poi sbatté il sedere al suolo. Si riempì i polmoni di quell’aria nuova, poi, spaventato, si lasciò andare a un pianto disperato. Le sue urla furono sovrastate dalla sirena, ora non più attutita dalle pareti d’acciaio, un suono così imponente e simile al suo pianto da fargli dimenticare la paura.

Aprì gli occhi, affondò le mani insozzate nel terriccio brullo e si guardò intorno, osservando la distesa arida che si estendeva a perdita d’occhio.
Non c’erano segni di vita intorno a lui, il terreno ocra si congiungeva al tramonto, senza soluzione di continuità; a segnalare il confine tra cielo e terra era solo il mezzo disco cremisi del sole tagliato a metà dall’orizzonte.
A interrompere la monotonia di quello scenario aprico vi era la macchia d’ombra che si proiettava intorno al suo corpo e le sei colonne smeraldine che ne delimitavano i confini; le seguì con lo sguardo.

Sopra di lui, inginocchiato su sei immense zampe arrugginite, un leviatano d’acciaio ululava il suo canto meccanico facendolo risuonare per tutto il deserto.
Il corpo della bestia d’ottone era coperto da striature d’ossido verde, le fronde di una foresta attraverso le quali faceva ancora capolino il metallo baluginante come un torrente silvano al tramonto.
Nella mente del bambino prese forma un suono, una parola a lui aliena di cui si rese conto di conoscere il concetto, qualcosa che descriveva alla perfezione la creatura da cui proveniva.
Il piccolo protese una mano verso il mostro che lo sovrastava e articolò la sua prima parola: «mamma.»

Manuel Piredda


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