Flashback:
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L’ultimo funi-ascensore stava per partire dal mega-condominio 3523, mancavano solo tre minuti alla chiusura delle porte; Lisa poteva vedere lo scorrere dei secondi nelle enormi cifre degli orologi meccanici incastonati nelle pareti. Correva come una forsennata nei corridoi infiniti del palazzo, schivando persone, animali e carretti a vapore impazziti; l’addio prolungato ai suoi fratellini l’aveva trattenuta più del solito.
Conosceva a memoria il percorso, ma doveva concentrarsi per non imboccare una svolta sbagliata: era tutto uguale, tutto si ripeteva all’infinito come un gioco di specchi. Lo zaino pesava parecchio sulle esili spalle della ragazza e la rallentava, ma il contenuto valeva la fatica.
Vide l’ascensore che stava chiudendo le porte, con un balzo si mise tra i due battenti e li fermò; le persone a bordo iniziarono a fare commenti stizziti. Lisa si guardò intorno, come al solito la cabina era strapiena: famiglie con bambini, operai, impiegati chini sulle loro mecca-calcolatrici, tre capre sintetiche e un pappagallo automa che ripeteva sempre la stessa frase: “Ciao, mi chiamo Rico, e te? Ciao, mi chiamo Rico, e te?”.
Il manovratore la fissò dai suoi occhialoni rotondi da aviatore, cappello a cilindro e giacca a coda lunga con gilè damascato; le strizzò l’occhio di vetro e attivò delle leve a frizione. Ci fu uno strattone e l’ascensore iniziò a salire fino al centoquindicesimo piano; una volta sul terrazzo, attraverso uno scambio, si collegò alle funi dell’alta velocità; la cabina accelerò in orizzontale, iniziando ad attraversare la città.
Lo skyline era un susseguirsi di grattacieli incompiuti, dirigibili mastodontici ed esili mongolfiere. Vapore denso e nero fuoriusciva dalle fabbriche, altrettanto ne veniva sparato nel cielo dai comignoli arrugginiti delle navi-città che solcavano il vicino deserto radioattivo. Lisa poteva sentirne il sapore metallico anche a quella distanza, il pensiero le fece venire un brivido lungo la schiena; socchiuse le palpebre…
…enormi pire s’innalzavano verso il cielo come totem giganti, bruciando la volta celeste e facendola andare lentamente in fumo. Piramidi di rifiuti si alternavano a fosse puzzolenti di zolfo. La mamma la teneva per mano mentre percorrevano il deserto di polvere gialla, in cui raffiche di vento le sballottavano come barche in balia della corrente. Un rotolacampo le sfiorò, tagliando trasversalmente lo spiazzo davanti al loro, per poi sparire all’orizzonte.
Rimanere con gli occhi aperti faceva male, ma loro dovevano arrivare alla loro piccola casa che si trovava al confine della città, oltre quella desolazione. Ogni volta Lisa riusciva a sopportare quello strazio solo immaginandosi le storie che gli raccontava la nonna. Gli narrava di giardini fatti di erba vera e profumata, boschi di larici, animali selvatici che spuntavano fuori dagli arbusti per giocare.
L’aria era satura di profumi resinosi e moltitudini di aromi colorati che si mischiavano nell’aria tiepida. E il verde. Il verde dominava il paesaggio; un calmante, riposante, verde. Certo anche adesso c’erano dei muri pitturati di verde muffa giù in città, ma non era la stessa cosa: non si percepivano fragranze floreali, non c’erano farfalle che volavano, nessun fiore su cui posarsi, alcun frutto d’assaporare. Nulla era più come prima.
Non c’era sola sabbia, nel deserto c’erano delle presenze. Delle figure umanoidi si aggiravano vestite di stracci variopinti, indossavano maschere e occhiali, non facendo intravedere nemmeno un millimetro quadrato del loro viso. Probabilmente erano gli autori delle sculture di detriti e scarti urbani che adornavano il panorama. Una volta Lisa vide una statua che raffigurava due corpi umani, un uomo e una donna, con all’interno due bambini che cercavano di uscire, di scappare da quelle gabbie per l’anima. Lisa capì quel giorno che doveva fuggire da qual mondo assurdo, doveva liberarsi come una farfalla dal bozzolo, a tutti i costi…
…un sobbalzo la riportò alla realtà: uno degli impiegati aveva lasciato da parte la mecca-calcolatrice e stava ponendo l’attenzione sulle sue gambe che sporgevano in parte dai pantaloni alla zuava di pelle sintetica. Una mano viscida le stava sfiorando il bacino. Lisa si voltò verso di lui e strinse gli occhi fino a farli diventare due fessure, emettendo una specie di ringhio; l’impiegato, come se niente fosse, ritornò con lo sguardo ai suoi meccanismi di calcolo ritirando frettolosamente la tozza mano viscida.
Un altro scossone confermò l’avvenuto scambio a una stazione aerea intermedia: pulegge ed enormi ruote dentate piene di morchia sfrigolarono a folle velocità unendo funi provenienti da vari condomini.
Era il momento: con le lacrime agli occhi Lisa si chinò per prendere la bomba dallo zaino. Il suo sguardo incrociò quello di una bambina, che le chiese:
«Come ti chiami tu? Che fai?»
«Mi chiamo Lisa e questa serve per liberare il nostro futuro. Tu come ti chiami?»
La bimba la squadrò con aria interrogativa, poi ritornò a giocare con la sua bambola.
Lisa con un gesto secco ruppe il vetro di emergenza e tirò la leva di apertura della porta. Sentì che le gambe quasi le cedevano, batteva i denti come in preda alla febbre alta. Guardò giù piegando la testa: vertigini fecero arrotolare il paesaggio creando una spirale di aria blu che finiva con palazzi e strade elicoidali. Si tuffò.
Si tuffò, aprendo le braccia come gli angeli nelle chiese; i palazzi sotto di lei sembravano tanti cubetti di ghiaccio rovesciati su un labirinto senza uscita. Tolse la sicura alla bomba e premette un bottone rosso: un telo gigante si dispiegò nell’aria, tutte le cam-mongolfiera in zona l’avrebbero ripresa e trasmessa in tutto il globo.
La scritta colorata rimase nel cielo per molti minuti:
“Più verde e più aria per tutti noi!
Siamo tutti farfalle. La Terra è la nostra crisalide.”
Lisa continuò la caduta libera con le braccia aperte, il vento forte nei capelli e un sorriso finalmente di felicità sul suo viso da bambina.
Il telo con il messaggio, come aveva sperato quando aveva ideato il piano, le fece da paracadute: rallentò la caduta, e Lisa si ritrovò a gambe in su sopra un cumulo di rifiuti maleodoranti. In alto poteva vedere la grande ragnatela formata delle funi dei vari ascensori cittadini e un cielo grigio, che nella sua fantasia stava già virando in un azzurro mare.
Adriano Muzzi
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