Lascivia/pudore:
Il riflesso nello specchio rimandava una figura alta e slanciata, incorniciata da capelli lunghi e castani. Tutto sembrava essere al suo posto, a parte un seno appena accennato e i fianchi, anche quelli, inesistenti. Eppure, in qualche modo, mi sentivo incompleta.
Compivo vent’anni quel giorno e il mondo scorreva veloce in quei primi anni del novecento.
«Studi troppo!» ripeteva mia madre. «Non troverai mai un fidanzato.»
Chissà, forse aveva ragione lei, ma non era solo quello che mi rendeva irrequieta e frequentare un istituto dove insegnavano a diventare maestre non era di aiuto. Gli uomini non amano le donne istruite, diceva sempre mia madre, e io passavo le mie giornate tra la scuola e la biblioteca.
C’era un ragazzo che mi piaceva. Si chiamava Stephen e faceva il fabbro, ma lui non mi degnava neanche di uno sguardo.
Era invece interessato alla ferraglia che manipolava con una sensualità “stravagante” e lasciva. L’avevo visto, più volte, accarezzare arnesi e metallo con voluttà. Credo fosse ciò che mi attirava di lui. Tanto balordo lui, tanto anonima io.
Stephen, un ragazzo silenzioso e solitario che se ne stava sempre per i fatti suoi. Difficilmente sarei riuscita a conquistarlo. Non facevo che guardarlo, imbambolata, quando passavo davanti alla sua bottega e fantasticavo su come sarebbe stato bello conoscerlo e parlargli. Mi sembrava irraggiungibile.
Chissà, mi dicevo. Un giorno mi noterà.
Quella mattina lasciai da parte i miei pensieri e uscii di casa diretta verso scuola. La nebbia londinese mi avvolse come una morbida mantella.
Feci alcuni isolati a piedi quando tutto vibrò e quasi persi l’equilibrio. Udii il clangore della ferrovia aerea, sempre più veloce e rumorosa, che sovrastava la città con sbuffi di vapore puzzolente. Alzai lo sguardo, per osservare meglio quell’architettura maestosa di tralicci e piloni, e quando lo abbassai notai un’insegna di rame, mai vista prima, al pianterreno di un fabbricato: “Le follie di Madame Cuivre”.
Il desiderio di vivere un’esperienza diversa dal solito prese il sopravvento e decisi di saltare la scuola per andare a visitare quel luogo.
Arrivata davanti al locale, bussai.
La porta del locale si aprì automaticamente al mio arrivo, come se avesse percepito la mia presenza.
Una ragazza minuta, con un cappello a cilindro e un corvo meccanico su una spalla, comparve e mi fece cenno di avanzare. Mi trovai in un ambiente spazioso, arredato con sfarzo e un pizzico di esoterismo. Alle pareti rivestite di velluto rosso erano appesi grandi specchi in cui, quasi in un gioco di matrioske, potevo vedere la mia figura riflessa numerose volte, sempre più piccola.
In fondo alla stanza una strana donna mi dava le spalle.
«Benvenuta. Sono Madame Cuivre. Posso esserti utile?» disse, voltandosi e aggiustando le pieghe di un sontuoso abito di maglia metallica.
L’accento della donna confermava le origini francesi, origini già suggerite dal nome inciso sull’insegna. Aveva il volto per metà nascosto da una maschera di rame e la metà visibile mostrava una bellezza che, anni prima, doveva aver fatto girare la testa a molti uomini. Le labbra erano colorate di un rosso intenso pari a quello dei suoi capelli, gonfi e cotonati in una massa arruffata e raccolta in cima alla testa.
Tra le dita stringeva un tubicino di vetro in cui galleggiavano lievi spirali di fumo e ogni tanto lo portava alla bocca, liberando poi quelle spire nell’aria intorno a noi. La donna aveva un aspetto curioso e inquietante allo stesso tempo, esercitando su di me uno strano fascino, quasi una calamita che mi attirava nel suo campo magnetico.
Guardavo quella donna chiedendomi chi fosse e da dove venisse, anche perché la sua strana bottega non l’avevo mai vista prima.
Le mie fantasie sul luogo in cui mi trovavo e sulle persone che mi stavano davanti, furono presto interrotte da una voce squillante.
«Ti stai chiedendo cosa sia questo?» disse la donna toccando la maschera. «Il ricordino d’un amante un po’ troppo focoso. M’ha scoperta a passeggio con un altro e ha pensato bene di marchiarmi. Il vapore sa essere molto doloroso…»
Provai allora rispetto per quella donna che, nonostante tutto, continuava a ostentare la sua femminilità.
Mia madre preferisce raccontare che sia colpa del diavolo, geloso della mia bellezza. A ogni modo, io ora ho un conto in sospeso con il demonio.»
Un brivido mi attraversò la schiena.
«Nessuno è mai stato in grado di restituirmi la mia intera bellezza, così io adesso mi dedico a chi quella bellezza non l’ha mai avuta, o magari, come me, l’ha persa per strada.»
Le curiosità sul passato della donna si fecero più forti.
«Ah, ma non credere» continuò, forse intuendo il mio disagio «il vapore sa essere anche benevolo.»
Nel dirlo indicò, lì nel suo locale, strani caschi di vetro fumanti che galleggiavano sospesi sopra una fila di poltroncine di velluto giallo oro, rivolte verso una parete ricoperta di specchi.
«Oggi è il mio compleanno…» fu l’unica cosa che riuscii a dire, stordita com’ero dalle parole della donna ma anche dall’ambiente in cui mi trovavo.
Mi prese la mano destra e ne scrutò il palmo. Sorrise.
«Ti serve un aiuto, lo vedo. Possiamo provare?»
Il mio pensiero andò a Stephen e feci cenno di sì con la testa.
«Vedrai, non ti pentirai del nostro lavoro. Sono una professionista in questo campo e nessuna si è mai lamentata dei servigi ricevuti, anzi…»
«E, se lo vuoi» continuò la donna «possiamo andare oltre. Sfidare le leggi della natura e incatenare a te l’uomo dei tuoi sogni. Ce l’hai qualcuno che ti piace?»
A quelle parole ebbi un sussulto. Certo che ce l’avevo qualcuno che mi piaceva, ma non volevo certo “incatenarlo” a me con strani espedienti. Quindi rifiutai quella strana proposta.
In un paio d’ore Madame Cuivre e i suoi aiutanti armeggiarono su di me con spazzole, pettini, pennelli e altri arnesi che non riuscivo a vedere, stesa com’ero su un morbido lettino. La sentivo massaggiarmi ma anche incidere la carne senza che provassi il minimo dolore.
Quando terminò, ero una persona diversa. Allo specchio vidi i miei capelli sollevarsi in una nuvola gonfia mentre seni e glutei sfidavano con arroganza e successo la forza di gravità grazie a placche di rame collocate nei punti giusti. Cipria, rossetto e una spruzzata di profumo rifinirono il tutto.
Uscendo da quello straordinario laboratorio, lasciai scivolare una banconota alla cassa, dove la solita ragazza svagata era intenta a tener dritto il suo copricapo a cilindro.
M’incamminai per le vie della città. Ora tutti si voltavano a guardarmi. Mi piaceva, ma non ero ancora sicura che fosse ciò che volevo.
Attraversai il quartiere degli orologiai e quello dei venditori di automi da compagnia sbirciando ogni tanto la mia nuova me nelle vetrine. Una signora usciva contenta da uno di quei negozi portando al guinzaglio un paio di cagnolini metallici che oscillavano la loro coda festosi.
Le ore passarono in fretta e la luce del giorno calò.
Nel buio, mentre cercavo la via per tornare a casa, udii dei passi dietro di me, sempre più rapidi e vicini.
Mi voltai un paio di volte ma la nebbia m’impediva di vedere chi fosse. Accelerai il passo, volevo tornare a casa. Quella specie di gioco era durato troppo e non mi piaceva più.
Incrociai carrozze volanti che sfrecciavano ignorando la mia presenza finché, dal fondo della via, una voce giunse chiara e una sagoma apparve sotto il lucore di un lampione.
«Guarda guarda che bel bocconcino!» riconobbi la voce di Stephen che si avvicinò mostrando la lama di un coltello nella mano destra.
Ecco, adesso ero proprio nei guai. Altro che donna diversa, pensai, qui ci voleva un miracolo.
«Sono io, Stephen. Non mi riconosci?» farfugliai, sperando che se mi avesse riconosciuta avrebbe cambiato atteggiamento.
Si avvicinò, gli occhi stretti in una fessura e, sempre minacciandomi con il coltello, piazzò una mano sul mio seno destro. Lo vidi balzare all’indietro colpito da un improvviso tremore e una leggera puzza di bruciato mi colpì le narici.
Non potevo credere a ciò che stava accadendo.
Il timido fabbro si era trasformato in un aggressivo farabutto. Rimasi stupita da quell’improvvisa spavalderia in un uomo che avevo sempre reputato scontroso e solitario. Ero convinta, non si sa per quale profonda motivazione, che quel suo essere solitario nascondesse un segreto che solo il mio amore poteva svelare.
Fu allora che la voce di Madame Cuivre risuonò nell’aria come una campana a festa.
«Hai dimenticato il resto, cara. E poi è il tuo compleanno. Non dovevamo festeggiare?» disse sventolando una banconota.
La donna era davanti a me, le pieghe del vestito dolcemente cigolanti, puntava verso l’uomo un ombrellino di pizzo metallico con una canna di fucile in cima, mentre Stephen pian piano indietreggiava.
«E tu, bellimbusto, se non sparisci ti riduco un colabrodo!»
«E tu, bellimbusto, che fai lì per terra?» chiese con un tono che dava alla domanda più l’aria di scherno che di interesse.
Sollevai il mento, fiera, mentre Stephen goffamente se la dava a gambe.
Non riuscii però a nascondere la delusione, mentre l’uomo scompariva all’orizzonte, di aver scoperto la sua vera natura. Chissà cosa ne sarebbe stato di lui.
Strinsi le mani sui miei fianchi ampi, provando finalmente una sensazione di pienezza e nel muovere le dita mi parve di udire uno strano cigolio. Qualsiasi cosa fossi diventata, di certo mi piaceva.
Madame Cuivre mi strizzò l’occhio, l’unico che potevo vedere.
M. R. Del Ciello
FAQ sulle storie variabili
Indice delle storie variabili