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«Avvocato, lei sostiene che questa macchina da scrivere abbia rimescolato le parole del suo cliente creando un’opera che ha avuto più successo dell’originale?»
«Sì, vostro onore.»
Il giudice sollevò la piuma dalle carte che aveva sul banco e si sistemò gli occhialini rotondi sul naso. L’avvocato raddrizzò la schiena e allineò le carte che aveva disposto in bell’ordine davanti a sé prima di lasciar scorrere lo sguardo sui volti ancora allibiti della giuria.
«Non faccia perdere tempo a questa corte, avvocato, sa benissimo che non possiamo processare una macchina con le leggi scritte per gli uomini.»
L’avvocato si alzò, sollevò un braccio fasciato in una manica attillata di velluto nero e puntò il dito verso la sedia vuota dimenticata accanto all’avvocato della difesa.
«Quella non è solo una macchina da scrivere, è un automa con intenti fraudolenti. Se non lo fermiamo subito stravolgerà l’editoria e ridurrà l’arte a una banalissima accozzaglia di ingranaggi rotanti!»
Nella tasca laterale del banco degli imputati comparve una capsula che l’avvocato aprì immediatamente, estraendone un foglio stampato. Lo lesse e lo dispose sulla pila alla sua sinistra. Ricongiungendo le mani sul tavolo mentre il giudice deponeva la penna e appoggiava la schiena allo scranno imbottito.
«Guardi, non mi sembra che l’editoria sia in pericolo. Non vedo una minaccia reale al bene collettivo. Vedo un’opera che piace al pubblico e i gusti del pubblico esulano dalle nostre competenze. Il pubblico gode della piena libertà di acquistare un titolo invece di un altro. Nessuno lo può impedire. Si sforzi piuttosto di far scrivere meglio il suo cliente, se vuole competere nel mercato.»
L’avvocato ignorò i mormorii del pubblico e sollevò un paio di libri mostrandone i titoli incisi a lettere dorate «Siamo qui perché il mio cliente era un affermato scrittore prima che il suo automa lo eclissasse. Non possiamo e non dobbiamo tollerare che una macchina si metta a produrre e vendere arte per conto suo. Dobbiamo difendere i privilegi dell’umanità e della cultura!»
Il pubblico rumoreggiò più forte e il giudice dovette richiedere il silenzio con un colpo di martello.
«Ricapitoliamo. La prego di attenersi a fatti realmente accaduti e di tralasciare le speculazioni sull’influenza di questi best seller nel mercato editoriale globale. Ci illustri come funziona e quali sono le mansioni esatte di questa macchina.»
L’avvocato indicò il trombone d’ottone appoggiato su una piattaforma rotante sul banco degli imputati:
«L’automa si compone di un dittafono, che riceve la storia composta dall’autore.» seguì quindi il tubicino che scendeva dal banco fino a una cassa di legno rossastro appoggiata sul pavimento. «Di alcuni rulli trascriventi a caratteri mobili, che compongono frasi e permettono di conservarle temporaneamente prima di stamparle, e di un rimescolatore randomico che ha il solo scopo di agevolare il pensiero laterale dell’autore. L’automa dispone anche di un collegamento con la posta pneumatica per automatizzare l’invio dei manoscritti alle case editrici.»
La cassa tremò ed emise un sibilo. Immediatamente dopo una nuova capsula comparve nella scrivania della difesa. Stavolta non fu aperta.
«I fatti lamentati dal mio cliente sono avvenuti nel mese di marzo dello scorso anno.
La macchina ha inviato dei testi di sua composizione a delle case editrici senza che il mio cliente, l’autore, ne fosse al corrente. La macchina ha firmato i testi usando un anagramma del suo codice di matricola. Il testo è stato accettato il 4 di maggio e la macchina ha ricevuto un contratto di edizione con anticipo, che trovate negli allegati, in data 12 giugno.»
Il giudice smise di titillarsi i boccoli bianchi della parrucca.
Sfogliò gli incartamenti fino a trovare il contratto. Lo aprì all’ultima pagina, dove di fianco alla firma dell’editore era impresso 12/6 Muscavorita. “Scrivautoma 621.”
L’avvocato riprese: «La casa editrice ha accettato la firma meccanica apposta in calce al contratto e dato alle stampe il testo. La macchina ha speso l’anticipo, che ora non è più disponibile per il mio cliente, che ne richiede quindi il rimborso. La macchina si rifiuta anche di consegnare le royalties ottenute dalla vendita dei testi.»
Il giudice scorse il contratto fino al paragrafo dei pagamenti, spalancò gli occhi e mascherò una smorfia di sorpresa con un colpo di tosse. Si pulì gli occhiali e rilesse il paragrafo. Richiuse il contratto e inclinò la testa da un lato.
«Lei sta quindi dicendo che il suo cliente era all’oscuro di quanto stesse avvenendo?»
L’avvocato si lasciò sfuggire un sorrisetto alla volta del suo cliente, che nel frattempo aveva disposto i libri in piedi, in bella mostra sul banco.
«Sì. Completamente. Lo ha scoperto all’arrivo dei primi pezzi di ricambio. Pezzi che la macchina non era in grado di sostituire da sola. Il mio cliente trovò una pagina stampata con le istruzioni di montaggio nella posta.»
Il giudice si massaggiò il mento.
«Anche se fosse vero quello che ci ha raccontato, e ne dubitiamo, l’automa non ha infranto nessuna delle leggi della robotica a cui è soggetto. Non le ha recato danno.»
«Ha usato le parole del mio cliente!”
Il giudice appoggiò una mano sul codice dalla grossa copertina borchiata che occupava buona parte del suo banco e rispose:
«Le ricordo che il suo cliente non possiede le parole, esse sono un bene pubblico.»
«Ha guadagnato un sacco di soldi e li ha spesi in pezzi di ricambio per se stesso!»
«Questo è conforme alla terza legge, autoconservazione.»
«Invoco il diritto d’autore! Se un altro scrittore avesse pubblicato un testo come questo, sarebbe stato plagio!»
«Le ricordo che stiamo parlando di un automa!»
«La prego di considerarlo un criminale, vostro onore.»
«Questa procedura non ha precedenti, avvocato. Se l’automa vincesse, le conseguenze sarebbero…»
«Procediamo!»
Una nuova capsula fece capolino nella buca della difesa e stavolta fu aperta. Conteneva solo due caratteri di punteggiatura: due punti e una parentesi curva chiusa.
Francesca D’Amato
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